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      La Chiesa di S. Maria a Marciano in Piana di Caiazzo (II)

 

Sua importanza archeologica, storica ed artistica

 

(continuazione, v. n. precedente)

 

Parte II

 

Cenni Storici

 

In quale anno sia stata eretta la Chiesa primitiva di Santa Maria a Marciano, non è possibile poterlo determinare con precisione.

L’unica cosa che mi è dato, per ora, affermare con una certezza direi quasi assoluta è, che la sua fondazione rimonta ad un’epoca remotissima e forse, molto più remota di quanto, comunemente, si crede. La troviamo infatti ricordata la prima volta, in una celebre Bolla di Gerberto, arcivescovo di Capua, che reca la data del 1 novembre 979.

Essendo questo un documento molto importante, specie per la sua antichità, merita un breve cenno illustrativo.

Rimasta vacante la Sede Vescovile di Caiazzo, per la morte di Orso (a. 979), tanto il Principe di Capua, Pandolfo Capodiferro (961-981), quanto l’Arcivescovo Gerberto, proposero Stefano della famiglia dei Menecillo, uomo di singolari virtù, che fu consacrato vescovo proprio il 1 novembre 979. In tale occasione adunque, Gerberto, diresse al Clero ed al popolo Caiatino una Bolla, con la quale, dopo aver annunziata l’elezione di Stefano a Vescovo della Diocesi, passa a descrivere i confini della Diocesi stessa, nonché ad enumerare tutte le Chiese, soggette al novello Pastore. Tra le altre Chiese, comprese nel territorio dell’attuale comune di Piana, e di cui ora, non rimane che il semplice ricordo con qualche informe avanzo, come: “Ecclesia Donatus in Ceparano, Eccl. Petrus in Palude, Eccl. Victor in Persoli, Eccl. Nazarius in Crispianisi” è annoverata pure “Eccl. Maria et Eccl. Ianuarius in Marcianu”.

Per ciò che riguarda la Chiesa di S. Gennaro, oltre di quello che troviamo nella Bolla di Gerberto, non se ne serba altro ricordo. La stessa tradizione popolare non ne fa cenno, anzi mostra d’ignorare completamente l’esistenza, pur essendo abbastanza precisa nel fornire notizie riguardanti le altre Chiese, menzionate nella Bolla di Gerberto. Cosicché dobbiamo ritenere che formasse un tutto solo con la Chiesa di “Santa Maria” o meglio, che la medesima Chiesa, fosse dedicata alla Vergine e al principale Patrono della città di Napoli[1].

La Bolla di Gerberto,oltre che in alcuni antichi ed autorevoli manoscritti, è riportata pure da Michele Monaco in “Sanctuarium Campanum” pag. 232, e dall’Ughelli “Italia Sacra” Vol. VI pag. 442-444[2].

Una più chiara ed espressa menzione però della Chiesa di Santa Maria in “agro Marciano”, la troviamo in un “Precetto o Diploma” di Rainulfo II, figlio di Roberto e Conte di Caiazzo, che reca la data dell’agosto 1119.

Proprio in quest’anno infatti, Rainulfo “inspiratus Divina inspiratione (sono queste, parole testuali del Documento) atque consilio et hortatu Dominicae Caytelgriniae… dilectissimae genitricis, pro salute ac redemptione animae genitoris (Rodberti Comitis) ac suae, coram Caiatino et Allifano iudice aliisque, testibus” donava: “Ecclesiae Sanctae Dei Genitricis et Virginis Mariae, quae est constructa intra fines civitatis Caiatiae, loco Marciano… integra tredecim modia terrarum… quae sunt posita in eodem loco Marciano”.

La donazione veniva fatta per le mani di Ursone, Vescovo di Caiazzo “ad possessionem eiusdem Ecclesiae et eius Rectorum atque custodum[3].

Questo importantissimo documento, il cui autografo si conserva tuttora nell’archivio Capitolare di Caiazzo, è stato pubblicato integralmente, con altri atti di donazione dello stesso Rainulfo, da Niccolò Giorgio “Vita di S. Sisto” pag. 68.

Tra l’una e l’altra data, – tra il 979 ed il 1119 – la tradizione ci presenta un altro ricordo, non meno importante che, se vero, congiunto specialmente con quello della donazione di Rainulfo, mostrerebbe chiaramente, in quanta reputazione fosse tenuta, nei secoli XI e XII, la Chiesa di Santa Maria a Marciano.

Secondo la tradizione adunque, Urbano II (il Papa francese che incoraggiò Pietro l’Eremita a predicare la prima Crociata e che trattò contro l’Imperatore di Germania per la quistione delle Investiture), recandosi a Caiazzo nel 1093, si sarebbe fermato, per più giorni, con tutto il suo seguito, proprio nell’Eremo di Santa Maria a Marciano.

Riporto questa notizia, senza commenti, come mi è stata riferita dal Faraone, il quale affermò di averla attinta da un antico manoscritto di Carlo Marocco, ora disperso. Quello però che si può ritenere con certezza, è la venuta di Urbano II a Caiazzo, come risulta non sola da documenti autentici, ma ancora, e principalmente, dal fatto che, proprio da Caiazzo, in data 3 Ottobre, spediva egli a Goffredo, Vescovo di Mileto, una Bolla, pubblicata dall’Ughelli.[4]

 

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Oltre i citati documenti, fino al principio del secolo XIV, epoca in cui venne costruita l’attuale Chiesa, non ne abbiamo altri che ce la ricordino. Segno evidente che, anch’essa, dovette subire, nel corso di questi due secoli, la sua fase di decadenza, se non addirittura l’identica sorte che, in epoca posteriore, hanno subite le altre Chiese consorelle, menzionate pure nella Bolla di Gerberto, e di cui ora non rimangono che pochi avanzi.

Ma, prima di passare a questo 2° periodo, in cui entra la nuova Chiesa di Santa Maria a Marciano, e seguirne quindi, con intelletto d’amore, le varie vicende, attraverso questi sei secoli, credo opportuno aprire una parentesi, per inquadrarvi poche notizie, relative ad un antichissimo Monastero Benedettino, sotto la cui dipendenza, la nostra Chiesa, rimase per un certo periodo.

 

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Sorgeva questo Monastero sulla vetta del Monte Verna, ora Monte S. Croce, alle cui radici, si estende il ridente paese di Piana. Di tutto il vasto fabbricato, presentemente, non rimane che una cisterna, ostruita con pietre e calcinacci, e due mura mezzo diroccate che, secondo la tradizione, facevano parte proprio della Chiesa Badiale.

Son costretto però, fin da principio, avvertire che come per Santa Maria a Marciano, cos’ ancora per il Monastero di Santa Croce, non mi è dato poter determinare l’epoca precisa della sua fondazione, non essendovi documenti in proposito. Con tutto ciò, mi riesce facile determinarlo approssimativamente, conoscendo da una Bolla di Stefano, Vescovo di Caiazzo del 985 (documento che esibirò in seguito), come detta Chiesa, con l’annesso Monastero, fosse stata edificata dalle fondamenta dal Conte Landolfo.

Ciò posto, ci potremmo domandare: “Esisteva questo Monastero nel 979, anno in cui troviamo ricordata, per la prima volta, la Chiesa di Santa Maria a Marciano”.

A me pare di no. Se si prende ad esaminare infatti la Bolla di Gerberto, in cui sono enumerate tutte le Chiese della Diocesi Caiatina, non escluse quelle esenti dalla Giurisdizione episcopale, non si troverà menzionato il Monastero di Santa Croce. È ricordato invece da due importantissimi documenti che datano dal 982 l’uno, dal 985 l’altro. Particolare questo che mi permette di affermare che, il Monastero di Santa Croce, sia stato edificato proprio nel periodo che corre tra il 979 e il 982.

 

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Non sarà perfettamente inutile dare un breve cenno dei due citati documenti.

Il primo è un atto pubblico con cui il Conte Landolfo donava al detto Monastero di Santa Croce, la Chiesa di San Marco in Ceserano [5], da lui edificata, unitamente ad alcuni territori di sua proprietà. Il testo del documento, che si può leggere per intero nel 3° vol. dei “Regii Neapolitani Archivii Monumenta” pag. 32, è il seguente: “Bolo… ut… siant pro anima mea offertum in Monasterio sancte Crucis sito in bertice montis qui dicitur berine,in finibus Caiatiae… integra Ecclesia mea vocabulo Sancti Marci quae constructa est in is dictis finibus Caiatiae loco ubi dicitur Cesaranu cum integre ipse terre mee quante, in nomine mee parates habeo in praedicto loco Cesaranu”. E continua il documento: “Insimul et integre ipse terre mea, quam in nomine mee parates habeo in loco ubi dicitur Cristianisi.[6]

Il 2° documento, quello cioè che reca la data del decembre 985, è una Bolla di Stefano, Vescovo di Caiazzo, importante non solo per la sua antichità, ma anche perché ci addita il nome del vero fondatore della Chiesa e del Monastero di Santa Croce. Dice infatti la Bolla: “…quem Landulfus amore Dei et redemptione anime sue a nobo fundamine solidavit ad laudem et gloriam Domini nostri Iesu Christi vocabulo Sancte Crucis edificare fecit et monasterium inde construxit”.

Nella medesima Bolla, dopo di aver ricordato, il Vescovo Stefano, le prescrizioni di Sacri Canoni, che vietano a chiunque di costruire Oratorii, senza il permesso speciale dell’Ordinario Diocesano, e che quelli inoltre già costruiti, dipendono dal medesimo: ad istanza dell’Arcidiacono e col consenso del clero, dichiara: “ut… Ecclesia… vocabulo Sancte Crucis sit absolute livera amodo et deinceps ab omni condicione episcopalis dominationis”. Ne conferma poi il patronato a Landolfo e gli concede vari privilegi, che tralascio, per brevità. La Bolla reca la firma di tutti i Sacerdoti e “Chierici”, cioè del Capitolo.[7]

Non sono questi però i soli documenti che ci ricordano il Monastero di S. Croce: altri due infatti, non meno importanti, ne troviamo registrati nel 5° vol. dei “Regii Neapolitani Archivi Monumenta” p.236 e 306.

Il 1° è dell’anno 1097 e riguarda una donazione che Riccardo II, Principe di Capua faceva, in perpetuo, a Guarino Abate del Monastero di S. Lorenzo in Aversa, nonché ai suoi successori. Tra l’altro donava pure “Monasterium Sancte Crucis, quod est in territorio Caiatiae, cum omnibus suis pertinentiis”.

L’altro documento che data dal 1106, è una specie di conferma dell’operato del Principe Riccardo, anche da parte del Vescovo e del Clero di Caiazzo. Il Vescovo Pietro infatti, annuendo al desiderio del predetto Abate Guarino, col consenso dei Canonici e Chierici della Diocesi e, dietro espressa volontà anche del conte Roberto (figlio di Rainulfo I, conte di Caiazzo), concedeva al Monastero di S. Lorenzo in Aversa, “in perpetuum Monasterium Sancte Crucis cum omnibus suis pertinentiis, excepto terra quae est posita infra Caiatinos fines, in loco videlicet qui dicitur Camula, qualiter, praefato Monasterio pertinuit etc.

Con questi due documenti, chiudo finalmente la lunga, ma non inutile parentesi, per ritornare all’argomento principale.

 

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Essendo oramai fuori dubbio, come vedremo, che la Chiesa di Santa Maria a Marciano, con l’annesso Eremo, sia rimasta per un lungo periodo, sotto la immediata dipendenza della Badia di Santa Croce: e conoscendo inoltre, come, tanto Riccardo, quanto il Vescovo Pietro, donassero al Monastero di S. Lorenzo di Aversa “Monasterium Sanctae Crucis cum omnibus suis pertinentiis” non sarà fuor di proposito investigare se, in epoca così remota, Santa Maria a Marciano, fosse già compresa tra i beni appartenenti a Santa Croce.

Certo, non abbiamo documenti per poterlo precisare, né potremo sperare di averne, giacché, come osserva il Melchiori a p. 57 della sua “Storia di Caiazzo”: “molte scritture riguardanti Caiazzo e dintorni”, conservate già dai Benedettini di Santa Croce e passate poi all’Archivio di Monte Cassino, onde tenerle più al sicuro, circa cinquant’anni prima a quello in cui scriveva la sua Storia (1619), erano andate distrutte, a causa di un incendio, insieme a molti altri documenti.

Dolorosamente ho avuto a constatare che, questa volta, la notizia comunicataci dal Melchiori, è del tutto precisa, giacché, avendo io fatte eseguire diligenti ricerche nell’Archivio di Montecassino dal Padre Benedettino D. Mariano Iaccarino, non solo non si è trovato nulla che riguardasse, anche lontanamente S. Maria a Marciano, ma neppure Santa Croce.

In base però a documenti già citati, mi è lecito rilevare che, per un certo periodo, a partire s’intende dalla sua primitiva fondazione, si fosse mantenuta autonoma.

Ricordando infatti il documento del 982, col quale Landolfo donava al Monastero di Santa Croce, la Chiesa di S. Marco in Cesarano, con territori adiacenti di sua proprietà, nonché i territori che possedeva in “loco ubi dicitur Cristianisi”: e richiamando pure alla mente la notizia fornitaci dal Iadone, secondo la quale, la Chiesa di Santa Maria a Marciano, sorgeva proprio nel distrutto villaggio di Cristianisi, possiamo affermare, o che la detta Chiesa, non facesse parte dei territori di Landolfo, o che, pur facendovi parte, non fosse compresa nella donazione di lui. Giacché, se anch’essa fosse stata donata al Monastero di Santa Croce, insieme ai territori adiacenti, il Conte Landolfo, non avrebbe omesso di notarlo, nell’atto di donazione, come non l’ha omesso per la Chiesa di S. Marco. È da presumersi dunque che, nel 982, S. Maria a Marciano, vivesse una vita completamente autonoma: e questa autonomia, pare, si possa estendere fino alla prima metà del secolo XII, altrimenti non mi saprei spiegare la donazione di tredici moggia di terreno che Rainulfo II Conte di Caiazzo nel 1119, faceva a questa Chiesa, per mano del Vescovo Ursone. Se infatti S. Maria a Marciano fosse dipesa, allora, da Santa Croce, la donazione doveva esser fatta all’Abate di quel Monastero e non “ad possessionem eiusdem Ecclesiae et eius rectorum atque custodum”.

 

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Quando adunque S. Maria a Marciano, passò sotto la dipendenza di Santa Croce?

La tradizione riferita in principio afferma che, quando dal pio capitano venne riedificata la Chiesa, Santa Maria a Marciano, fosse già una grancia di Santa Croce. E pare si possa ritenere attendibile tale notizia: con la restrizione però che vi fosse passata da poco tempo: altrimenti non mi saprei spiegare, come mai i Benedettini di Santa Croce, lasciassero deperire una Chiesa, così importante, per la sua antichità e per le sue gloriose tradizioni, tanto da essersi poi costretti, al principio del sec. XIV, a riedificarla dalle fondamenta.

E ritengo che vi dovesse dipendere fin d’allora, giacché, pur rimanendo fermo il nucleo centrale della tradizione, la parte cioè relativa al pio capitano, per opera del quale sarebbe stata riedificata la Chiesa con l’annesso Eremo: il semplice fatto di trovare una Chiesa di architettura gotica, interamente decorata, sarebbe per me addirittura inesplicabile, senza riconoscervi una speciale influenza Benedettina. Osserva infatti Demetrio Salazaro che “…la cagione precipua della cultura artistica nelle province Meridionali e dello sviluppo civile e progressivo e non discontinuo,furono i Benedettini, i cui Monasteri erano centri di una febbrile attività civilizzatrice[8].

 

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Ed ora: “da quali documenti si rileva la dipendenza di Santa Maria a Marciano da Santa Croce?”

Per quante ricerche avessi potuto fare, sia nell’archivio della Curia Vescovile, sia in quello Capitolare, non mi è stato possibile rintracciarne, quantunque ve ne fossero numerosi, fino a pochi anni fa: come mi riferiva un tempo, il compianto Primicerio Mastroianni, e mi assicura presentemente il Signor Faraone, il quale ultimo, afferma tuttora, di averne avuto visione, negli anni passati, nello studiare le numerose pergamene ivi conservate.

Quale sarà stata la loro sorte, è facile immaginarlo. Custoditi fino a qualche anno fa, da persone poco adatte e che, naturalmente, non arrivavano a comprenderne e valutarne l’importanza storica, saranno andati, certo, dispersi e distrutti come parecchie pergamene conservate nella Biblioteca del Seminario che, abbandonate alla rinfusa negli scaffali, tra libri e carte di nessun valore, servirono poi a rilegare libri di seminaristi impertinenti ed ignoranti. Mentre, chi sa quante notizie avrebbero potuto fornirci, specie sulle vicende storiche dell’antica Caiazzo: quante lagune colmare, quanti dubbi diradare che, forse, rimarranno perennemente tali, nell’animo nostro e dei nostri posteri.

Se però mancano ora le prove dirette, abbondano le indirette,le quali ultime, del resto, a me pare che possano degnamente sostituirle.

Tra gli affreschi infatti che adornano le pareti di questa Chiesa, interessantissimo è quello rappresentante il Crocifisso.

Fino a pochi mesi fa, occupava esso la parte centrale di un rozzo altare designatoci nei più antichi documenti, sotto la denominazione di “Altare della Croce”. Ora, chi prende a considerare l’importante dipinto, in tutti i suoi particolari, si accorgerà subito, essere una copia fedele dell’altro Crocifisso, più piccolo, scolpito su viva pietra che appartenne, un tempo, al Monastero di Santa Croce e che ora invece trovasi incastonato nel muro a sinistra della porta d’ingresso della Chiesa parrocchiale del villaggio omonimo.

Questa semplice constatazione, anche se mancassero altre prove, non basterebbe, forse, ad avvalorare la tradizione popolare? Se infatti Santa Maria a Marciano, non fosse dipesa allora da Santa Croce, perché imitarne questo Crocifisso? Se l’affresco, come vedremo, rimonta proprio a quel periodo glorioso, in cui il pennello di Pietro Cavallini, di Giotto, di Simone Martini, adornavano le pareti delle Chiese più importanti, dei loro dipinti immortali: mancavano forse, all’arti, modelli d imitare?

Ma oltre a questa, altre prove ancora posso addurre, non meno interessanti.

Così per esempio, a sinistra del Crocifisso, troviamo dipinti dalla medesima mano, come si rileva dalla tecnica generale, un S. Benedetto, patrono e fondatore di quell’Ordine i cui figli dimoravano, allora, nel Monastero di Santa Croce.

E finalmente non va trascurato l’altro particolare che, fin dai tempi più remoti, è stata sempre designata con la denominazione di Via Croce, quella che anticamente, menava alla Chiesa di Santa Maria a Marciano.

Mi fermo a queste prove soltanto, che io ritengo d’importanza capitale, augurandomi che, ulteriori e più pazienti ricerche, mi mettano in grado di scoprire i veri documenti.

 

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Ed ora un rapido sguardo alle vicende della nuova Chiesa.

Ricostruita, poco dopo il 1330, nel medesimo luogo ove sorgeva l’antica, ma di proporzioni, indubbiamente più vaste e con un’architettura più armonica e rispecchiante, in tutto i caratteri della scuola gotica Angioina, si apparecchiava, essa, a vivere un 2° periodo di vita gloriosa.

Così nel 1334, veniva, in parte, decorata con importanti affreschi: come si rileva da una iscrizione del tempo, apposta in una parete della Cappellina a destra del Coro, il cui testo è il seguente:

†ANNO.DOM.MCCCXXXIIII.OHC.OPU.FIERI.FECIT.IOHES.CAMMARRIO.ONORE.DEI.ET.

BEATI.LUCÆ.EVANGELIS(T)Æ.

Questa epigrafe, olte che dal Parroco Raffaele De Vivo, in una “Breve Relazione su Santa Maria a Marciano” è registrata pure negli “Atti della Commissione Conservatrice dei Monumenti in Terra di Lavoro” nel verbale della tornata del 7 decembre 1881 N. 6 p. 126.

Tanto nel manoscritto del De Vivo però, quanto negli “Atti della Commissione” è riportato fino alla parola “BEAT…”, il resto coperto da un triplice strato di calce che lo nascondeva completamente, è stato esumato da me.[9]

Le ultime parole da me scoverte, non mancano, certo, di avere il loro valore, quando si consideri che distruggono completamente la tesi sostenuta, per tanto tempo, dal De Vivo e dallo stesso Faraone, che cioè il “BEAT…” fosse nient’altro che “BEATAE VIRGINIS”; e che per conseguenza, tanto la ricostruzione, quanto la decorazione della Chiesa fossero state eseguite nel medesimo anno 1334 “in onore di Dio e della Beata Vergine”. È evidente ora che l’una cosa non ha che fare con l’altra.

La Chiesa era stata già ricostruita prima del 1334 e decorata pure, secondo afferma la tradizione, con alcuni affreschi, che tuttora esistono e di cui parlerò in seguito: ma, non è da mettersi in dubbio che, quella parte di decorazione a cui si riferisce l’epigrafe citata, sia stata eseguita unicamente in onore di Dio e del Beato Luca Evangelista. [10] È insomma uno di quegli ex voto frequentissimi nel Medioevo.

Che sia autentica poi l’Epigrafe citata, credo perfettamente inutile dimostrarlo, dato che, i caratteri degli affreschi, sotto di cui si trova apposta e la scrittura stessa adoperatavi, rendono piena testimonianza della sua autenticità.

Piuttosto, credo opportuno investigare, chi sia stato questo Giovanni Cammarrio,a spese e devozione del quale, fu eseguito tale importante lavoro.

 

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Il citato Parroco De Vivo, tanto nella sua “Breve Relazione su S. Maria a Marciano” quanto in una nota storica, apposta nel libro dei Battezzati all’anno 1886, sostiene, senza provarlo, s’intende, che il “Cammarrio sia lo stesso che De Mario”.

Un’affermazione così categorica, non poteva, certo, non produrre in me una profonda impressione. Quale analogia infatti, pensavo, vi può essere tra un Cammarrio e un De Mario?

Curioso allora di scoprire ad ogni costo il bandolo dell’intricata quistione, mi diedi ad esaminare parecchi manoscritti, gentilmente concessimi dagli eredi del defunto Primicerio Mastroianni: ma dopo minuziose e pazienti ricerche, una sola cosa mi fu possibile assodare, e cioè che l’opinione lanciata dal De Vivo, non era una genuina invenzione della sua fantasia.

In un manoscritto infatti di un certo Giuseppe Maria Foschi (Caiatino, 1711-1776, insigne cultore di scienze sacre, e Dottore in Diritto Civile e Canonico), trovai l’identica affermazione, non solo, ma espressa con le medesime parole.

E che malamente il De Vivo, avesse attinto tale particolare dal Foschi, non è da dubitarne, giacché, come ho appreso dal Faraone stesso, questo ed altri manoscritti, erano stati consultati dal De Vivo, per risolvere una quistione d’indole giuridica, sostenuta da lui, davanti al Pretore di Caiazzo, e contro il Comune di Piana, proprio nell’anno 1886, allo scopo di definire, legalmente, la pertinenza della Chiesa di S. Maria a Marciano, e specie dell’annesso Eremo, di cui voleva, ad ogni costo, impossessarsi il detto Comune.

Ma, se da una parte ero riuscito a scoprire la fonte a cui aveva attinto, inconsideratamente, il De Vivo, mi rimaneva sempre a determinare, da quali ragioni, fosse stato indotto il Foschi, a metter fuori tale opinione.

E dopo uno studio molto accurato dell’argomento, mi son dovuto convincere che, molto probabilmente, dovette essere indotto in errore dal fatto della esistenza di una famiglia De Mario, a Caiazzo, proprio nell’epoca in cui venne eretta e decorata l’attuale Chiesa di S.Maria a Marciano.

Troviamo infatti, in quel torno di tempo, un Giacomo de Mario, “nobile Caiatino che, nel 1356 fu dall’Imperatore Carlo IV, nominato conte palatino e cavaliere dello sperone d’oro; che passò poi al servizio del re di Francia e dopo avervi militato per molti anni, in premio del suo valore, ebbe il privilegio d’inserire sul suo stemma il giglio d’oro [11].

Ma quale attinenza, ripeto, tra la famiglia Cammario e Giacomo De Mario? Nei dintorni non ve ne sia traccia, se si eccettua un Cammarrio, menzionato in una epigrafe scoperta a S. Angelo in Formis, villaggio non molto lontano da Piana, e propriamente nella masseria Ragozzini [12]. A Piana abbonda invece il cognome Cammarota: ma non credo che il Cammarota possa essere un derivato di Cammarrio.

Che però, presentemente, non si trovi traccia del cognome Cammarrio, non distrugge, certo, che vi potette essere in tempi più remoti. L’unico documento che ci potrebbe attestare la sua esistenza, sono i libri Parrocchiali, i quali nella loro scarna e nuda semplicità, si possono considerare come storia vera e propria.

Ma intanto, l più antico documento di tal genere, che possa, ora, fornirci l’Archivio Parrocchiale di Piana, rimonta al 1 gennaio 1593.

Chi ci assicura adunque che, nel 1334, on vi fosse a Piana la famiglia Cammarrio? E quest’ultimo argomento è avvalorato, principalmente dal fatto che, moltissimi cognomi, abbastanza comuni a Piana, verso la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento (registrati in questi libri), non esistono più.

Non può allora essere avvenuto lo stesso per il cognome Cammarrio?

E allora, anzicché ricorrere a personaggi storici, per identificare il nostro Giovanni Cammarrio, come pare, che facciano il foschi e il De Vivo; sarebbe più logico, considerarlo come un semplice fedele di Piana, il quale, come il pio capitano della tradizione, per soddisfare un voto verso S. Luca Evangelista, avrebbe fatta decorare, a proprie spese, tutta la Cappellina, (nella quale si legge l’epigrafe) con buona parte del Coro e del Transetto.

Né mancano esempi consimili del Comune stesso di Piana. Nell’attuale cappellina infatti di Santa Maria delle Grazie, sita in contrada Sant’Angelo, sotto due graziosi affreschi, discretamente conservati, rappresentanti S. Rocco e S. Sebastiano, si legge la seguente epigrafe:

HOC. OPUS. F.(F). GERONIMO. DE. MAIO. PER. SOA. DEVOCIONE. 1532[13]

 

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Per trovare ora altre notizie relative a Santa Maria a Marciano, dobbiamo sorvolare tre secoli circa: periodo che corrisponderebbe proprio a quello in cui, detta Chiesa, rimase sotto la dipendenza dei Benedettini di Santa Croce. E dico tre secoli circa, perché essendo andati distrutti, verso la fine del Cinquecento, secondo ci riferisce il Melchiori, i documenti riguardanti Caiazzo e dintorni, conservati nell’Archivio di Montecassino: l’unica fonte ancora ci rimane, per poter attingere nuovi particolari, sono gli Atti, il più antico e prezioso documento che conservi l’Archivio della Curia Vescovile, non rimonta che al 1613.

Quali siano stati adunque le vicende della nostra Chiesa, durante questi tre secoli, non è possibile poterlo determinare con precisione. Se però si considera che, quanto, attualmente, possiede di più pregevole, rimonta ad un’epoca anteriore al 1600; è facile conchiudere che, questo lungo periodo fu per essa, il periodo forse più glorioso e fecondo.

 

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Ed ora un’ultima domanda: “In quale anno, S. Maria a Marciano, passò alla Mensa Vescovile?”.

È questo, evidentemente, uno dei soliti quesiti, per cui bisogna contentarsi di una risposta approssimativa, a causa della mancanza assoluta di documenti.

Prima di tutto, credo indispensabile far rilevare che, fin dal 1551, i Benedettini sono già partiti da Santa Croce, dato che, in tale anno, troviamo il detto Monastero sotto la dipendenza di un certo Stefano Marsio. Quest’ultimo ed importantissimo particolare, ho potuto desumerlo da un codice membranaceo conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, sotto la segnatura X. AA. 1°. È un inventario di tutti i beni, mobili ed immobili appartenenti in quell’epoca a S. Lorenzo di Aversa “confectum (come si rileva dal titolo segnato sulla prima pagina) ad instantiam Abbatis et Monachorum eiusdem Monasterii die ultima novembris 1549” da Mattia Costanzia.

Ora a pag. 102 di questo prezioso documento, si legge: “Item asseruit[14] dictum Monasterium (idest Sancti Laurentii) habuisse et habere sub eius grancia beneficium Sanctae Crucis de Caiacia collatum per dictum Monasterium Reverendo Clerico Stephano Marsio qui tenetur comparer’ in festo Sancti Laurenti, et solvere quolibet anno pro recognitione dicti beneficii carlenos viginti octo”.

Ai principi del Seicento invece la Badia è sotto la dipendenza del Cardinale Pallotti, come ci riferisce il Melchiori a pag. 28 op. cit.

Ciò posto: se nel 1551, non troviamo più i Benedettini su Santa Croce, pur continuando la Badia a rimanere sotto la dipendenza di S. Lorenzo di Aversa, è possibile ritenere che, fin da allora S. Maria a Marciano, sia passata alla Mensa Vescovile? Io credo di no!

Monsignor Orazio Acquaviva infatti,che fu Vescovo di Caiazzo dal 1590 al 1617, negli Atti della Visita Pastorale da lui compiuta nell’anno 1612,[15] non fa menzione di S. Maria a Marciano: mentre parla diffusamente della Chiesa di Sant’Angelo e Sant’Andrea (3 febbraio 1613).

Ne parla invece Monsignor Paolo Filomarino,che gli successe il 18 febbraio 1617. Difatti, negli Atti della 2° Santa visita da lui compiuta il 3 luglio 1620, leggiamo che con le altre Chiese di Piana “visitavit Ecclesiam Sanctae Mariae de Marciano, quae est aduexa Mensae Episcopali. Egli non aggiunge altre notizie importanti, giacché afferma di aver descritta la Chiesa “in Visitatione 1618”.

Per quante ricerche abbia potute fare nell’Archivio della Curia Vescovile, non mi è stato possibile rintracciare, nell’originale della Santa Visita del 1618, la parte riguardante il villaggio di Piana: poiché essendo questi Atti divisi in fascicoli, manca proprio quello relativo a Piana. Ciò nonostante si può ritenere con certezza che,fin dal 1618 S. Maria a Marciano, fosse già annessa alla Mensa Vescovile.

Ma un particolare molto più interessante, mi permette di affermare qualche cosa di più preciso.

Chi prenderà infatti ad esaminare, con attenzione, il portale d’ingresso, scorgerà facilmente nella parte superiore un piccolo stemma episcopale, scolpito su marmo, ma ricoperto di calce: non in modo tale però, che non se ne possano distinguere le linee generali.

È uno scudo col solito cappello episcopale con i fiocchi pendenti dai due lati, il cui campo è diviso in quattro sezioni, mediante due linee tracciate su di esso a forma di Croce. Tanto nella sezione superiore a destra, quanto nell’inferiore a sinistra, si scorge un leone rampante, ritto cioè sui piedi di dietro, con la coda sollevata e la lingua penzoloni.

È dunque lo stemma di Monsignor Acquaviva.

Ora, la presenza di questo stemma sulla porta d’ingresso, mi fa conchiudere, con assoluta certezza, che S. Maria a Marciano, sia passata alla Mensa Vescovile proprio sotto l’Episcopio di lui, e propriamente negli ultimi anni della vita dell’Acquaviva.

Il De Vivo però nella sua Relazine su S. Maria a Marciano, da me più volte citata, attribuisce la presenza dello stemma dell’Acquaviva unicamente al fatto che, durante il suo episcopato, S. Maria a Marciano venne restaurata ed ampliata, con l’aggiunzione cioè della nave all’attuale transetto.

Se si possa, oppur no, tener conto di quest’ultima gratuita affermazione, lo vedremo in seguito: per ora, quello che mi preme far notare è che, durante l’episcopato dell’Acquaviva, la nostra Chiesa, non fu affatto restaurata. Difatti, negli Atti stessi della Santa Visita del 3 luglio 1620, di Monsignor Filomarino, trovo che, detta Chiesa “indiget reparatione in aliqua ipsius parte”. E continua il manoscritto che, il sullodato Vescovo, diede incarico al Parroco di Piana, Fabio Lamperio “qui curet illam reparationem in partibus necessariis”. È dunque evidente che la Chiesa non era stata restaurata dall’Acquaviva, altrimenti non si sarebbe sentita la necessità di ulteriori restauri alla distanza di quattro o cinque anni appena. Tanto più che, il testo del Filomarino è abbastanza chiaro, e fa supporre che, i restauri occorrenti, dovevano essere di prima necessità, anche per la parte statica della Chiesa medesima.

E allora, ripeto, non vi è più dubbio che, la presenza di questo stemma, ricordi proprio il passaggio della Chiesa dalla dipendenza Benedettina a quella Episcopale.

 

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Continuando in questa rassegna, noto che, dal Filomarino in poi in tutti gli Atti delle Sante Visite, operate dai Vescovi della Diocesi, troviamo, sempre, qualche accenno relativo a S. Maria a Marciano.

Così il successore del Filomarino, Monsignor Filippo De Sio, nominato Vescovo di Caiazzo il 18 Decembre 1623 e poi trasferito alla Sede Vescovile di Baiano, ne costruiva a proprie spese l’unica campana nel 1624. Particolare questo che si potrebbe del resto, anche rilevare dalla semplice disamina della campana medesima, recando essa scolpita intorno, non solo il nome e lo stemma del De Sio, ma anche la designazione dell’anno in cui fu fatta costruire.

Oltremodo caratteristiche sono le notizie che troviamo, in riguardo, negli “Atti della Santa Visita” di Monsignor Francesco Perrone, Napolitano, eletto Vescovo di Caiazzo il 23 novembre 1648.

Visitando infatti il 26 settembre 1649, la Chiesa di S. Maria a Marciano, trovò sull’Altare Maggiore, al posto della pietra sacra, prescritta dai Canoni, una “lapis marmorea”, onde “asseritur totum altare esse dissecratum”. Passando poi ad esaminare l’altare della Croce e trovandolo troppo angusto “mandavit dictum altare auguri ex utraque parte… ut maiori commoditate celebrare possit”. Ordine questo che dovette essere eseguito prontamente. Chi infatti avesse preso ad osservare l’antico altare della Croce, distrutto solo nel gennaio 1915, per sostituirvene un altro, in legno scolpito, opera pregevole della fine del Seicento, si sarebbe accorto subito che la mensa constava appunto di tre pezzi di marmo: uno più ampio in mezzo, e due più stretti ai lati, poggianti su apposite spallette in muratura.

Omettendo, per ragione di brevità, le notizie tramandateci da Monsignor Villani e dal Vicario Foschi[16], non sarà inutile riportare testualmente, la breve ma precisa descrizione che della nostra Chiesa ci ha lasciata Monsignor Piperni nel fascicolo “Scritture attinenti allo stato della Chiesa Cattedrale di Caiazzo e sua Diocesi, circa la Visita dei Sacri Limini”. 1758.

Procul a Piana, scrive il Piperni, mille circiter passus extat Eremus cum Ecclesia Vulgo nuncupata S. Maria Marciano ob stucturae Gothicae vetustatem ab aedacitate temporis illaesam spectabilis, quae habet duo altaria, nempe Maius sub nunciato titulo S. Mariae Marciano, alterum vero e cornum epistulae sub titulo Domini Cruci affixi, et mediocri potitur suppellectili, fideliumque elaemosinis sustinetur”.

 

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Potrei qui trascrivere tutti gli accenni che, negli Atti delle Sante Visite,ci danno i Vescovi posteriori, fino a quello dei giorni nostri: ma me ne astengo per la sola ragione che, dopo aver riempite parecchie altre pagine, nulla di nuovo verrei ad aggiungere alle notizie finora esposte.

Quello però che non posso fare a meno di notare, prima di por termine a questi brevi cenni storici, è un certo senso di stupore e di disdegno da cui sono stato preso, fin dal primo giorno che mi son dato a studiare tale argomento.

Come mai, una Chiesa così, importante per la sua antichità e per il suo alto valore artistico: meta, per giunta, di pii pellegrinaggi, fin dai tempi più remoti e specie durante tutto il secolo XIX, non abbia trovato una persona che avesse consacrata una pagina sola, se non per rievocarne addirittura le vicende storiche, per farne risaltare almeno i pregi artistici?

Il solo particolare, di costituire essa un esempio unico in tutta la Diocesi Caiatina, sia per la sua struttura architettonica, che per la parte decorativa: non avrebbe dovuto, forse suscitare l’interesse, almeno dei Vescovi che, in ogni tempo, hanno avuto agio di osservarla nelle loro Visite Pastorali?

Se ne astennero forse, perché paghi di quanto nel 1618, aveva scritto in proposito, Monsignor Filomarino? Mistero!…

Fortuna però che, se l’indolenza degli uomini l’ha condannata all’oblio, cercando finanche di distruggere quanto essa possedeva di più bello, la parte cioè, decorativa: la solidità della costruzione, ha saputo ben resistere, contro i duri colpi del tempo e dell’ignoranza.

Cosicché, quando, con lavoro paziente, sarò riuscito a liberare completamente dal sottile strato di calce che ora li ricopre, tutti gli affreschi che, un tempo, adornavano le sue pareti: potrò dichiararmi ben lieto, perché col restituire a questo Sacro Tempio, le sue forme primitive, avrò, certo, compiuto un’opera altamente nobile e civile.

 

Prof. Sac. Giuseppe De Francesco

(continua)

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[1] La probabile ragione di questa duplice dedicazione, non saprei trovarla meglio che in questo particolare. Come risulta da documenti autentici, oltre che dalle numerose notizie, tramandateci da autorevoli Storici Ecclesiastici proprio nel Campo Marciano, presso Pozzuoli, i Napolitani seppellirono il corpo del loro Patrono, onde liberarlo dal furore degl’increduli. Ora, se i fedeli di Piana, abbiano tenuto presente questo dato storico, nell’edificare la Chiesa primitiva, sul suolo appunto di un altro campo Marciano, non potrei affermarlo con precisione: ma neppure, credo, si possa sostenere che non vi abbiano pensato affatto.

[2] A proposito dell’Ughelli, è opportuno notare che, egli riporta il documento a modo suo, giacché, neppure a farlo apposta, nessuna delle Chiese comprese nel territorio di Piana, è da lui registrata. Segno evidente che egli non ha mai veduto l’originale, come lo ha veduto invece Michele Monaco (come afferma egli stesso), e che, per conseguenza, lo ha ricavato da una cattiva fonte.

Non posso infatti ammettere che, avesse avuto ragioni speciali per sopprimerle.

[3] Non sarà qui inutile ricordare che queste 13 moggia di terreno, donata da Rainulfo, non fanno più parte del patrimonio di detta Chiesa. Il 30 giugno 1812, con ordinanza del Commissario ripartitore del Demanio Ecclesiastico, venivano divise, con altri terreni, pure appartenenti a S. Maria a Marc. (in tutto 22 moggia), tra i Comuni di Piana e di Caiazzo: e distaccate poi definitivamente (in ragione di tre quinti al Com. di Piana, il resto a quello di Caiazzo); con verbale del 24 agosto 1819, registrato a Caiazzo il 26 dello stesso mese (N. 1397).

Qualche anno dopo, il Vescovo della Diocesi, un certo Gualtieri, mediante la cooperazione del fratello, allora Prefetto della Prov. di Caserta, riusciva a riscattarle per la Mensa Vescovile. Con l’incameramento dei Beni Ecclesiastici, furono, dal Governo, vendute al Cav. Pietro Maturi di Caiazzo.

Nel 1876 poi, i due Comuni di Piana e di Caiazzo, ripigliarono la quistione e richiamando in vigore l’atto di divisione del 1819, furono interamente indennizzati dal governo stesso.

[4] V. Faraone G., Notizie Stor. e Biograf. Della Città e Diocesi di Caiazzo p. 6.

[5] Villaggio presso Caiazzo.

[6] Noto qui di passaggio che “Cristianisi” (o Crispianisi o Crippianisi, come registrano parecchi manoscritti), era anticamente un villaggio che sorgeva nelle vicinanze dell’attuale Piana, dalla parte di mezzogiorno, e proprio nel territorio che si estende tra Piana e la Chiesa di Santa Maria a Marciano: territorio che, anche oggi, è designato dal volgo col nome di “Camprianni o Crampianni”. Quest’ultima limitazione, mi permetto di notarla in base ad una notizia che rilevo dal citato manoscritto di Pasquale Iadone.

Secondo il Iadone, la Chiesa di Santa Maria a Marciano, sorgeva proprio nel villaggio di Crispianisi. Scrive egli infatti: “La Chiesa di Santa Maria, oggi esistente, chiamata Santa Maria a Marciano, era nel distrutto casale di Crippianisi, come si dirà nelle notizie dei mezzi tempi”. Dati più precisi, non potrei, per ora, fornire in proposito, perché l’unica fonte da cui avrei potuto attingerli, cioè la 3° parte delle “Memorie storiche di Caiazzo” del Iadone,  andata disgraziatamente, dispersa.

[7] Il testo di questa Bolla, trova esatto riscontro con quella di un’altra Bolla che data dal 979, anno 26 del principato di Pandolfo, 1 del principato di Landolfo di lui figlio, “Deo fabente Sancte Dei Genitricis et Virginis Marie, Sancte Calatensis sedis consecratus est antistes”. È riportata nel 2° vol. “R. Neap. Arch. Mon.” pag. 175. In essa Alderico, dopo di aver ricordato le prescrizioni dei S. Canoni, come nella Bolla precedente, concesse “ut Ecclesia vocabulo Sancte Crucis… sit absoluta libera amodo et deinc eps ab omni condicione episcopalis iurisdictionis”.

Quest’ultimo particolare, sembrerebbe, a prima vista, un’aperta contradizione con quello che affermavo poc’anzi che cioè la Chiesa di Santa Croce non fosse stata edificata prima del 979. Ma, considerando poi nelle sue circostanze, pare si possa ritenere attendibile l’opinione di non pochi scrittori che si sono occupati della quistione, che cioè il Calatensis, non indichi l’attuale Caiazzo. Tra l’opinione poi di Michele Monaco in “Sanctuarium Campanum”, sostenuta anche dall’Ughelli, “Italia Sacra”, che cioè il Calatensis sia lo stesso Calvensis: l’opinione del SannicolaMonografia di Caiazzo” p. 21, il quale ritiene che Calatarsis derivi da Galazia, città posta presso Maddaloni, preferisco quest’ultima, perché più logica: non arrivando a comprendere come mai una Calatensis possa derivare da un Calvensis. Che poi questa Chiesa di Santa Croce, di cui si fa menzione nella Bolla di Alderico, non corrisponda realmente alla nostra, si potrebbe desumere non solo dalla diversa denominazione dei luoghi (giacché questa sorgeva “in finibus Casanoba in loco ubi dicitur Pauciano”, mentre la nostra “in vertice montis Vernae”), ma anche, e principalmente dal fatto che, qui, si fa menzone di un Alderico Vescovo, che non troviamo nel catalogo dei Vescovi di Caiazzo. E se vi si volesse, arbitrariamente inserire, si andrebbe incontro ad una grave difficoltà. Noi troviamo infatti che, lo stesso Alderico, sottoscrive la Bolla di Gerberto del 1 novembre 979: “Ego Aldericus Calactinae Ecclesiae Episcopus consensi ei subscripsi”. La sua esistenza adunque coincide con la elezione di Stefano a Vescovo di Caiazzo… Possibile che, vi fossero a Caiazzo, contemporaneamente due Vescovi?

[8] Salazaro D., Sulla Cultura Artistica dell’Italia Merid. dal IV al XIII sec.

[9] Il giorno 17 febbraio 1915.

[10] Non recherà più meraviglia quest’ultimo particolare, ove si consideri che la devozione verso l’Evangelista, doveva essere diffusa in tutto il territorio Caiatino, dato che, nella Chiesa Cattedrale, tra le numerose reliquie, si conserva fin da tempi remotissimi, il braccio sinistro di S. Luca. Questo fatto è accennato pure dall’Ughelli in “Italia Sacra”.

[11] V. Faraone, op. cit. p. 24.

[12] Questa epigrafe è riportata dal MommsenCorpus Inscr. Lat.” Vol. X. Il testo è il seguente:

Iustitiae Nemesi – Fastis quam voverat atrum,

Numina Sanctu – Cammarius posuit.

Qui però il Cammario, come il Mommsen stesso osserva, non è altro che la traduzione del greco “àrrianòs”.

[13] Poiché ho avuto occasione di ricordare questa Cappellina che, fino alla prima metà del Seicento, fu una delle Chiese Parrocchiali di Piana, unitamente a quella di Sant’Andrea (ora distrutta e all’attuale dello Spirito Santo: non credo superfluo aggiungere che, anche la sua origine rimonta ad un’epoca, remotissima.

La trovo infatti ricordata in un documento del 1282. È un atto pubblico con cui Giovanni Glinetta, nobile cavaliere e familiare di Carlo d’Angiò e poi signore di Caiazzo, dona alla mensa Vescovile “quaedam stabilia bona… in loco Sancti Angeli alla Piana dicto… ad salutem animae suae patrisque sui Guillelemi”. Di questo documento fa menzione l’Ughelli “Italia Sacra”, vol. 6 pag. 447; e il Melchiorri, op. cit. p. 102. E si noti che, proprio sotto la denominazione di Sant’Angelo, e non già Santa Maria delle Grazie, troviamo costantemente, designata la detta Cappella, nei libri Parrocchiali più antichi, come pure negli Atti delle Sante Visite, fino alla 1° metà del secolo XVII.

[14] Allude al testimone che ha fornite innanzi altre notizie.

[15] Ho già avuto occasione di avvertire, essere questo il più antico documento del genere conservato a Caiazzo.

[16] Il 1° venne a visitarla il g. 8 settembre 1686; il 2° il g. 11 ottobre 1712.